Nell’intermezzo della calma piatta che veleggiava nei paraggi del luogo, all’alba del 30 giugno, Leon scese dalla sua Jeep. Dopo essersi sgranchito le gambe, passò oltre alla ricerca di un vuoto nella siepe di destra. Sulla strada non ce n’era. Ritornò indietro per dirigersi davanti al passo di Villa Margarucci. Là davanti a lui lontano si distende la valle del Musone, ma più vicina quella del Fiumicello, rappezzata dalle figure geometriche, per lo più rettangoli, delle colture di foraggi, grano appena mietuto e granturco, tagli freschi e verdeggianti di erba medica....
Nell’intermezzo della calma piatta che veleggiava nei paraggi del luogo, all’alba del 30 giugno, Leon scese dalla sua Jeep. Dopo essersi sgranchito le gambe, passò oltre alla ricerca di un vuoto nella siepe di destra. Sulla strada non ce n’era. Ritornò indietro per dirigersi davanti al passo di Villa Margarucci. Là davanti a lui lontano si distende la valle del Musone, ma più vicina quella del Fiumicello, rappezzata dalle figure geometriche, per lo più rettangoli, delle colture di foraggi, grano appena mietuto e granturco, tagli freschi e verdeggianti di erba medica.
Così si era immaginata la campagna, studiando la topografia del luogo. Ad occhio nudo non riuscì a scorgere il Fiumicello. Il primo puntamento di cannocchiale gliene fece intuire il percorso, grazie al ponte, di seguito alle poche case sparse lì sotto sulla sinistra e seguendo su, su fino alla catena degli Appennini, lungo il serpeggiare degli alberi, per lo più betulle e salici, che ne seguivano il corso tortuoso. In alto in fondo, ad ovest, tende verso il cielo il San Vicino, azzurrino sotto il primo sole. Da lì, dallo scorcio gli sembrò l’Everest. Solo un baleno di esitazione focalizzò l’intera catena dei Sibillini. Più in fondo il Gran Sasso. Ma quello fu, nel suo pensiero, terreno perduto, forse per sempre, dietro le sue spalle. Esperto stratega, non a caso ebbe il battesimo del fuoco nemico nell’inferno di Montecassino, Leon puntò il cannocchiale verso le colline più in là dove, a corona della collina, si distende Montoro. Il nemico era là.
Nella sua fantasia si disegnarono le pupille dilatate degli occhi del tedesco dietro le lenti del cannocchiale, intento a mettere a fuoco su di lui. La sensazione di sottopelle gli diede conferma di quello che pensava. Fece un ampio gesto con il braccio destro all’altezza dell’ orecchio, per scacciare una mosca, che, a quell’ ora, cominciava la giornata a infastidire un qualsiasi esemplare umano. All’alba le mosche di solito dormono. Quella no. In realtà a lui il gesto servì per darsi un contegno, appunto, davanti alla schiera di occhi, che, seppur lontani, immaginava con certezza, che gli fossero addosso.
Là ci vogliono uomini grandi e grossi con tanto coraggio e poco cervello, pensò. Venne a Leon l’ impulso di pensare alla stessa stregua di qualche guerrigliero sprezzante della vita altrui, con il sorriso ironico sulla bocca contratta. Ne-anche quel fruscio di note sfuggì alle sue orecchie, educato a ben altro. Strappato dalla guerra di forza da sopra la tastiera del piano. Per mezzo di lui Liszt si proponeva nei suoi preludi in evoluzioni miracolose fra il silenzio delle cose. Ma quello era stato tempo di pace. Il passato. Gli sembrò che fossero trascorsi dieci anni da quel suo ultimo concerto. Anche perché combattere dal basso verso l’alto è sempre stato difficile. Poi a stento riuscì a mascherare un’altra smorfia di sorriso. Il suo carrista, intento alla guida del Leopard, strappato al nemico, non inferiore a lui per acume, gli rivolse la parola avvicinandogli il viso al suo orecchio. Lo fece anche per non gridare in mezzo a tanto sferragliare di mezzi della colonna del battaglione che stava arrivando.
- Cos’ha detto, colonnello?
- Niente...Niente...Pensa a guidare!
- Mi sembrava di averlo sentito dire.
- Già la guerra ti crea sensazioni che immagini ma che non sono.
Scacciato il suo importuno di fiducia, in coda al primo pensiero se ne aggiunse un altro: “C’è qualcosa di più folle che intraprendere, non si sa per quali ragioni un simile scontro, nel quale entrambe le parti, comunque vadano le cose, ritraggono sempre più danno che guadagno?” Domanda senza risposta come dire: “ do’ vò, vò” , di colui che rincorre la sua follia alla conquista della vita, dopo aver perso i punti di riferimento. Aveva sempre con sé il pensiero della morte; non a caso si ripeteva, prima di ogni azione di guerra: “Dei caduti poi se ne parlerà appena poco dopo, poi si tacerà per sempre”. “ Per fortuna” chiosò lui. E lui, caso volle, nella circostanza, che non sapeva neanche chi fosse sua madre, figuriamoci suo padre, morti in circostanze tragiche. Dove?
Il suo carrista, dopo aver aggirato la collinetta, a metà discesa, raggiunse la curva prima di Via Paradiso, quella che conduce in collina.
Dopo essere sceso, confabulò brevemente con un alto ufficiale, forse suo pari, che viaggiava a fianco dell’autista di una jeep, appena sopraggiunta. Ne prese il posto, e dopo che il capo colonna si riavviò, fece girare a destra il suo mezzo verso la collina.
Dal piazzale davanti alla Chiesa controllò che il suo battaglione raggiungesse la quota che aveva previsto, secondo accordi concordati con i superiori. Stette lì ad osservare, servendosi del suo cannocchiale, sempre infilato a tracolla con la cordicella sfilacciata. Volse lo sguardo verso il San Vicino, poi giù puntando sempre il ciglio delle colline. L’azzurro nel cielo di primo mattino, la luce intensa e l’aria fresca stavano per intontirlo, prima di scuotere vigorosamente la testa. Il ponte sul Fiumicello, prima della scuola, nonostante i bombardamenti, anche se danneggiato, era restato incolume. La colonna serpeggiò davanti a lui dislocando i vari automezzi, carri e camion di ogni dimensione e forma, nella pianura che dell’edificio scolastico si distende verso i “Grasciari”. Anche il caso volle che i campi di grano, appena mietuto, fossero popolati di “cavalletti” di covoni.
Impiegarono sedici minuti, secondo le lancette del suo cronometro, i soldati a dislocare le salmerie dell’intero battaglione. Un cenno, appena pronunciato di approva-zione, poi si diresse a grandi passi verso la porta della Chiesa.
Don Furcina, preoccupato fin dalle prime luci dell’alba, lo accolse con sussiego, come dire: “ Ed ora che si fa? Che vuole costui?”
Il colonnello sulle prime lo ignorò. Inginocchiatosi, sussurrò in tutta fretta solo con il pensiero una preghiera e dopo il segno della croce, rialzatosi, disse:
- Alle sette e trenta suoni le campane...devo parlare con la gente del borgo.
- I suoi ordini sono un dovere per un uomo di chiesa e... di pace.
- Anche a me sarebbe piaciuto scegliere la pace ma...purtroppo, eccoci quà!.
S’interruppe, alzando le braccia al cielo, per lasciare all’interlocutore la possibile conclusione del pensiero. Nulla.
Un cenno di saluto militare e via. I suoi passi rimbombarono lungo la navata della chiesa mentre le luci filtravano dalle finestre mostrando gli sguardi afflitti di due statue grigie poste in alto ai lati dell’altare.
Anziché dirigersi verso l’accampamento ordinò all’ autista di proseguire verso Padiglione. Il lungo rettilineo di strada bianca, piena di buche, gli si parò davanti.
“ Là in fondo il Musone” Pensò. Voleva accertarsi delle condizioni dell’altro ponte, subito dopo la confluenza della strada verso Montoro. Né lui, né il comando della divisione avevano ancora pensato di scegliere la strategia da seguire per l’avanzata imminente. In ogni caso, se ne fossero venuti a conoscenza, i suoi superiori avrebbero disapprovato il suo comportamento.
Uno sdentato e moccioso si propone fra una frotta di bambini a caccia di robe da mangiare. Il suo ardire è tale per cui:
- Leo non ce l’ hai più il cioccolato?
- Nsermì... Carletto...Tito...
Le donne indiavolate lassù all’imboccatura del vicolo schiamazzavano non appena l’ombra dei munelli si allontanava dalla loro vista.
C’è da capirle ‘ste donne, ‘ste madri in trepidazione, dati i tempi, per i loro figli. Solo ad esse l’onore di far presenza in ogni luogo del borgo, come se nulla fosse, quando incombe l’invasione. La paura perciò appartiene a tutti, specie per gli uomini giovani, quelli che alla guerra, per una ragione o per un'altra, per quanto plausibili, non ci sono andati o ne sono fuggiti, costretti a vivere alla macchia.
Leo, per gli amici, Leon per la storia e per i suoi soldati, non si scompose più di tanto, neanche quando un bambino, il più spregiudicato, ha fatto in tempo ad arrampicarglisi, dietro la schiena, fino a lambirgli il collo con le sue manine non del tutto immacolate.
- Nsermì, curri. A casa subito!
- No, mamma io...
Paf! Un calcio in culo. Giò a corre per sfuggì alle grinfie della madre indiavolata.
- Tanto te pijo, figlio di una...che saria io.
La donna si ricompose, con il fiato corto e la schiuma di rabbia intorno alla bocca, dopo aver recuperato lo zoccolo perduto per aver tirato calci.
Leon rimase allibito solo per un istante, tanto la sua abitudine si era misurata in altri luoghi con altrettanti fatti inconsueti! Il battaglione che comandava era dislocato da pochi giorni nella pianura fra le ultime case del borgo ed il Fiumicello. Aveva anche fatto in tempo a prendere rapidamente familiarità con la gente. Ora tutto intorno si proponeva una calma piatta, come se il mondo si fosse fermato ad osservare i misfatti accaduti e quelli che immaginava sarebbero dovuti accadere. Egli si trovava in un vicolo a cul de sac, di una stradina laterale, tanto per assecondarlo nei suoi pensieri, era alla ricerca di un qualcuno che forse gli sarebbe stato utile ad informarlo sui particolari del terreno.
Si era di mattino inoltrato del 3 di luglio.
All’alba il comando di divisione Vilno gli aveva ordinato di perlustrare la collina di fronte, martoriata per giorni e giorni dai bombardamenti degli alleati. Naturalmente Leon pensava di essere in sintonia con i comandi superiori, però davanti al fronte che scotta ci stava lui, e soprattutto i suoi soldati. Guerrigliero sì Leon, ma prudente. Non a caso i suoi soldati gli volevano lo stesso bene di un padre, nonostante la sua età fosse spesso molto inferiore alla maggior parte di essi. Dopo la sfuriata della madre de ‘Nsermì se ne propose un’altra all’attenzione di Leon, nella vana ricerca di parlare con qualcuno che lo ragguagliasse in quale luogo dirigersi alla ricerca di Arnaldo.
- Tu si stupida, stronza. Per fortuna del nome... [Cristina]Non ti vergogni di bestemmiare come un facchino?
- Porca...Porc...Non sono stata io, è stata Minara...
- Sei pure busciarda.
Leon, in mezzo alla rissa fra popolane, riuscì a stento a portarsi le mani sulle tempie. Con lo sguardo rivolto in cielo di chi voglia essere esaudito “ Signore Iddio dove sono piovuto?”. Timidamente, dopo aver alzato un dito verso l’alto, ot-tenne una tregua temporanea. Rivolto poi a Minara, fece in tempo a dire, con voce dimessa:
- Arnaldo dove abita? Sapete se è in casa? Fece le due domande in tempo appena prima che riprendesse l’alterco. Nessuna risposta. La fortuna tuttavia gli venne incontro. Poco più giù vide una bambina biondissima. Riccioluta.
- Come ti chiami?
- Daia.
- Ciao, Daia. Intese darle qualche caramella. Ne trasse di tasca una manciata.
- No...no...mamma non vuole!
- Sai dove posso trovare un signore di nome Arnaldo?
- Sì, è ziu. E’ là.
Indicò d’un sol fiato l’ultima casetta di sinistra, in fondo al vicolo. Poi si mise una manina sulla fronte per ripararsi gli occhi dalla luce del sole nel seguire l’uomo alto verso il luogo appena indicato. Leon ci si diresse a grandi passi.
Bussò. Continuò a bussare. Nessuna risposta.
- Ciao, polacchetta! Se ne andò in preda alla delusione, mentre la polacchetta lo seguì con lo sguardo un po’ attonito, senza saperne il significato.
[qui]
Stralcio di diario.
“Anzitutto devo riconoscere a me stesso il fatto che non avrei mai immaginato di riscuotere tanta fiducia da parte del comandante, di quel comandante. Per giunta Straniero. I giovani se ne sono andati tutti, chi per guerra e chi alla macchia. Sono restato solo io. Giocoforza. Gli anziani, senza volerlo mostrare in apparenza, m’irridono o mi compiangono. La mia menomazione li disturba, come se fossi un cane, caracollante attraverso la vita, perché gli manca una zampa. A me manca un occhio, quello sinistro, e chi mi guarda, ho l’impressione che, fissi solo da quella parte che è di vetro, perciò rigido a coprire lo sguardo mancante, mentre quello destro deve battagliare contro la luce, di qualsiasi intensità, per sopperire all’altra deficienza. Cosa posso farci se quello è rigido, limpido sempre e senza vita e l’altro è...
Egli si è presentato in fondo al vicolo dove abito a Passatempo, con il suo passo marziale a tratti, scanzonato e leggero, circondato da una frotta di bambini che gli tendono le mani per aver qualcosa.
Devo anche ammettere che, dopo l’incontro con il tale, sono stato assalito da uno stato di costante fibrillazione di cuore. Forse paura? Con la paura di morire è da qua-si due anni che ci faccio i conti. Da quando mi sono assunto l’incarico di fare la staffetta ai partigiani ho voltato la pagina dove c’è scritto “paura”, anche se non mi ha abbandonato mai, anzi siamo diventati amici. Già, ma giorni addietro un fatto in quanto tale mi ha creato non solo tanta fibrillazione, ma altrettanta paura. Paura di morire? Non è solo di morire; più di non farcela.
Troppe volte ho attraversato posti di blocco, prima che il fronte alleato avanzasse sopra gli spartiacque del Po-tenza e dell’ Esino. Perché giorni addietro appunto non mi sarei mai sognato di provare questo tipo di stato fisi-co o psicologico? La riprova in due brevi fatti. L’eccidio di Filottrano mi ha devastato l’anima e fare la staffetta è più pericoloso che partecipare a qualche episodio di guerriglia. Alla notizia di quell’evento, il mio primo i-stinto fu di buttare nel fosso quel catorcio arrugginito di bicicletta che mi ero procurato con sacrifici e trovate di linguaggio per non rispondere alla domanda di -per che cosa mi potesse servire-. Al suo posto, se mi fosse stato possibile avrei imbracciato un mitra. Almeno uno di quei neri individui, lo avrei di certo mandato al creatore. Forse anche più di uno. Perché? Nel mio lavoro, quello di staffetta appunto ho avuto il tempo e l’occasione di conoscere tutti i posti, anche quelli impensabili, in cui i tedeschi si appostavano. E di pensare, di pensare a lungo, mentre nelle sparatorie è poco salutare pensare. Essi, nella maggior parte delle volte, non lo sapevano ma io li percepivo.
Il secondo fatto? Eccolo: prima di arrivare davanti alla figuretta all’inizio delle Fratte, dove la strada biforca verso Montefano a sinistra e San Biagio a destra, avverto uno sferragliare di un thank. Intuisco la presenza di te-deschi. E’ stato un tutt’uno buttarsi in un passo aperto nella fratta di destra. Tuttavia mi hanno visto. Frenata brusca. Era l’incubo di notti prima che prendeva corpo. E se ti scoprono?
- Alt! Partigiano!
- Che partigiano e partigiano!
- Dove vai, che fai, chi sei!
- Una per volta. Ti pare?
Intanto ero a culu porzò. Perché? Tentare di fare la cacca dietro una siepe poteva essere un espediente di salvezza. L’iniziativa ed il contegno talvolta servono, tanto che i due tipi, in quel frangente abbastanza eloquente, decisero di soprassedere, ritirandosi sulla strada oltre la siepe, in atteggiamento prosaico. Ed il dispaccio destinato a Litargini & C di sospendere ogni iniziativa giunse a destinazione, anche in quell’ occasione.
Ora nel silenzio della notte inoltrata non riesco a prendere sonno. Nel vicolo non tira un filo d’aria. Il caldo gioca il suo ruolo, ma l’agitazione di più, anche se non sono in grado di darmi una spiegazione razionale. In tempi normali quando mi capitava di non riuscire a dormire anziché contare le pecore, ripassavo a memoria la formazione dell’ Ambrosiana, quella dell’ultimo scudetto. Anche in questa circostanza ho richiamato alla me-moria l’espediente, ma niente da fare. Come se la memo-ria si fosse liberata dalle scorie, non riuscivo neanche ad andare oltre al nome del terzino sinistro.
A mettermi agitazione in corpo, senza volerlo ammettere, era la paura; paura di quel domani.
Però non mi sono pentito di aver detto di sì. L’ho fatto senza riflettere anche perché quel polacco alto, emacia-to, quasi ascetico, con il suo sorriso rassicurante, il suo italiano sgangherato, mi ha conquistato alla causa.
Poi paura di che? Di chi? Appena tre giorni sono tra-scorsi dall’alba dell’eccidio di Filottrano. Conoscevo di persona alcune vittime; di altre ho appreso i nomi il giorno dopo mentre percorrevo le strade verso Villastrada. In pericolo sempre. Anche l’undicesimo conosco, il quale, per sua fortuna, è scampato dall’esecuzione. Quando potrò, Dio volendo, lo andrò a trovare per solidarietà ed anche per... scambiare sensazioni, per esempio, per saperne di più quando si è costretti a camminare sopra quel genere di precipizio”.
Sopra il canterano in bella mostra la sveglia segna il toc-co dell’una e trenta. E che ci vuole a giungere alle tre? Mi sono girato a pancia in sotto, con la speranza di dormire.
Niente da fare. E’ comparsa di nuovo la sua figura, quel-la di Leon, nonostante che poche ore prima evaporasse senza neanche un cenno di saluto.
Si era presentato come un fantasma sul far della sera; scomparve come un fulmine dopo aver sussurrato: Intesi?
Sotto quella sua aria di mitezza si nascondeva, secondo l’opinione del suo aiutante in campo, di cui non ricordo il nome, che lo seguiva come un’ombra, il Leon eroe della battaglia di Montecassino, la sua determinazione e spregiudicatezza nell’azione.
Le sue caratteristiche di soldato coraggioso lo hanno già consegnato alla storia, sempre secondo quanto si sussurrava. Nella resa di Montecassino è stato, insieme al suo reparto, quello che ha contato meno sacrifici di vi-te umane, affacciandosi alla testa di un plotone del 12° reggimento lancieri, dopo aver superato il ciglio della strada, a presentarsi sulla spianata davanti all’Abbazia devastata.
Non ho dormito più e mi sono presentato davanti alla sua tenda fiocamente illuminata nell’accampamento”.
La sorpresa richiedeva silenzio assoluto senza appoggio di artiglierie e mezzi corrazzati, come avviene in casi del genere.
Ricordo ancora quando, da bambino, insieme alla mamma Ionne si andava a messa d’inverno prima dell’alba al buio in cui i rumori degli zoccoli sulla strada diventava-no distinti e chiari; di ognuno ero in grado di conoscere a chi appartenessero i passi. Qui no. Già ché si percorreva un sentiero di campagna, ma soprattutto perché, prima dell’inizio dell’azione Lui aveva ispezionato e fatto ispezionare che i suoi soldati calzassero stivaletti leggeri risuolati di gomma spessa.
Leon ed io eravamo alla testa della colonna. Non appena raggiunto l’avamposto di Rotella, collina gibbosa, segnalata sulla carta come quota 218, l’azione fu immediata, il nemico colto di sorpresa, vano ogni tentativo di sua resistenza, soffocata sul nascere, la conquista avvenne senza colpo ferire, prima del sorgere del sole.
Leon, prevedendo una possibile reazione del nemico, che si manifestò alle prime luci dell’alba, diede l’ordine di radunare i prigionieri ed i feriti leggeri, che insieme a me, dovevano ripiegare nelle retrovie, accompagnati da una nutrita scorta. La colonna era destinata a rientrare alla base. Passatempo.
Fatti pochi metri un sibilo squarciò l’aria ed una granata esplose di schianto sollevando terriccio e schegge. Con il diradarsi del fumo, alcuni uomini si sollevarono, altri no. Fra questi ultimi c’ero anch’io. Mi sembrava di essere morto causa buio completo intorno a me.
Mi sono svegliato in un letto di ospedale delle retrovie del Fronte. A Chieti per la precisione.
- Stefani, visita per te!
Poi la porta si richiuse lentamente dietro la voce indefinita. Ogni giorno cambiavano soggetti. Di tanto in tanto appariva un tale vestito da militare, piccolo, con la faccia nascosta dietro occhiali e baffi mostruosi. Senza degnarsi di parlare, se n’andava dopo un po’, scollando la testa.
Mi venne un rigurgito improvviso di pianto prima di di-re:
- E chi può essere?
Ho fatto in tempo ad ingoiare le lacrime dopo essermi ri-cordato che quella mattina uno sparuto gruppo fra me-dici ed inservienti mi hanno notificato le ragioni della menomazione.
Al momento mi ha colpito un senso d’indifferenza siderale di quel gruppo di sanitari oppure ritenuti tali. Poi, quando la porta di fondo si chiuse alle loro spalle persi il senso della cognizione delle cose, ma prevalse lo spettro dell’aspetto pratico della vita con cui avrei dovuto fare i conti. In che condizioni avrei potuto vivere in quello sta-to? A fatica, facendo leva sugli avambracci, ho tentato di sedermi sopra il letto, il mio sforzo tuttavia è stato vano. Una o più molle della rete, parte destra del letto, hanno ceduto sotto il mio peso. Ho rischiato di cadere in terra; poi raggiunto un equilibrio precario, sono riuscito a se-dermi.
Si aprì di nuovo la porta. Chi poteva essere? Come mi dovrei comportare se fosse lui? Fare buon viso a cattiva sorte? Era proprio lui. Mi diede una gran pacca sulla spalla poi, senza scendere in discorsi di circostanza, mi ha snocciolato sopra il letto una serie di foto. Mi ha colpito quella in cui sette facce di giovanissimi sorridenti circondano il generale Moriggi dopo la fine della battaglia, coincisa con la cacciata dei tedeschi da Filottrano.
Non serve molto alla storia riportare il dialogo fra me e Leon. Una cosa però è certa: quanti hanno saputo della mia disavventura, fra gli addetti ai lavori, nessuno ha avuto il coraggio di farsi vivo. Nessuno.
Quando si è richiusa la porta della camerata in cui fui l’ultimo ricoverato, gli occhi mi andarono sul foglietto spiegazzato abbandonato lì, come se fosse stato perso.
Chiamai ad alta voce. Nessuno rispose.
Lo apersi. Conteneva la copia del salvacondotto per il mio futuro.
L’originale era già stato trasmesso al Comando del CLN di competenza. Così era indicato nel Ps del foglietto.
Se non ci fosse stato Leon, chi avrebbe conosciuto la vicenda di Stefani, umile staffetta partigiana? Ma soprattutto chi avrebbe risarcito i suoi danni fisici e morali, molto più gravi? Nessuno tanto per essere in linea con le visite in ospedale.