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Stralcio di diario.
“Anzitutto devo riconoscere a me stesso il fatto che non avrei mai immaginato di riscuotere tanta fiducia da parte del comandante, di quel comandante. Per giunta Straniero. I giovani se ne sono andati tutti, chi per guerra e chi alla macchia. Sono restato solo io. Giocoforza. Gli anziani, senza volerlo mostrare in apparenza, m’irridono o mi compiangono. La mia menomazione li disturba, come se fossi un cane, caracollante attraverso la vita, perché gli manca una zampa. A me manca un occhio, quello sinistro, e chi mi guarda, ho l’impressione che, fissi solo da quella parte che è di vetro, perciò rigido a coprire lo sguardo mancante, mentre quello destro deve battagliare contro la luce, di qualsiasi intensità, per sopperire all’altra deficienza. Cosa posso farci se quello è rigido, limpido sempre e senza vita e l’altro è...
Egli si è presentato in fondo al vicolo dove abito a Passatempo, con il suo passo marziale a tratti, scanzonato e leggero, circondato da una frotta di bambini che gli tendono le mani per aver qualcosa.
Devo anche ammettere che, dopo l’incontro con il tale, sono stato assalito da uno stato di costante fibrillazione di cuore. Forse paura? Con la paura di morire è da qua-si due anni che ci faccio i conti. Da quando mi sono assunto l’incarico di fare la staffetta ai partigiani ho voltato la pagina dove c’è scritto “paura”, anche se non mi ha abbandonato mai, anzi siamo diventati amici. Già, ma giorni addietro un fatto in quanto tale mi ha creato non solo tanta fibrillazione, ma altrettanta paura. Paura di morire? Non è solo di morire; più di non farcela.
Troppe volte ho attraversato posti di blocco, prima che il fronte alleato avanzasse sopra gli spartiacque del Po-tenza e dell’ Esino. Perché giorni addietro appunto non mi sarei mai sognato di provare questo tipo di stato fisi-co o psicologico? La riprova in due brevi fatti. L’eccidio di Filottrano mi ha devastato l’anima e fare la staffetta è più pericoloso che partecipare a qualche episodio di guerriglia. Alla notizia di quell’evento, il mio primo i-stinto fu di buttare nel fosso quel catorcio arrugginito di bicicletta che mi ero procurato con sacrifici e trovate di linguaggio per non rispondere alla domanda di -per che cosa mi potesse servire-. Al suo posto, se mi fosse stato possibile avrei imbracciato un mitra. Almeno uno di quei neri individui, lo avrei di certo mandato al creatore. Forse anche più di uno. Perché? Nel mio lavoro, quello di staffetta appunto ho avuto il tempo e l’occasione di conoscere tutti i posti, anche quelli impensabili, in cui i tedeschi si appostavano. E di pensare, di pensare a lungo, mentre nelle sparatorie è poco salutare pensare. Essi, nella maggior parte delle volte, non lo sapevano ma io li percepivo.
Il secondo fatto? Eccolo: prima di arrivare davanti alla figuretta all’inizio delle Fratte, dove la strada biforca verso Montefano a sinistra e San Biagio a destra, avverto uno sferragliare di un thank. Intuisco la presenza di te-deschi. E’ stato un tutt’uno buttarsi in un passo aperto nella fratta di destra. Tuttavia mi hanno visto. Frenata brusca. Era l’incubo di notti prima che prendeva corpo. E se ti scoprono?
- Alt! Partigiano!
- Che partigiano e partigiano!
- Dove vai, che fai, chi sei!
- Una per volta. Ti pare?
Intanto ero a culu porzò. Perché? Tentare di fare la cacca dietro una siepe poteva essere un espediente di salvezza. L’iniziativa ed il contegno talvolta servono, tanto che i due tipi, in quel frangente abbastanza eloquente, decisero di soprassedere, ritirandosi sulla strada oltre la siepe, in atteggiamento prosaico. Ed il dispaccio destinato a Litargini & C di sospendere ogni iniziativa giunse a destinazione, anche in quell’ occasione.
Ora nel silenzio della notte inoltrata non riesco a prendere sonno. Nel vicolo non tira un filo d’aria. Il caldo gioca il suo ruolo, ma l’agitazione di più, anche se non sono in grado di darmi una spiegazione razionale. In tempi normali quando mi capitava di non riuscire a dormire anziché contare le pecore, ripassavo a memoria la formazione dell’ Ambrosiana, quella dell’ultimo scudetto. Anche in questa circostanza ho richiamato alla me-moria l’espediente, ma niente da fare. Come se la memo-ria si fosse liberata dalle scorie, non riuscivo neanche ad andare oltre al nome del terzino sinistro.
A mettermi agitazione in corpo, senza volerlo ammettere, era la paura; paura di quel domani.
Però non mi sono pentito di aver detto di sì. L’ho fatto senza riflettere anche perché quel polacco alto, emacia-to, quasi ascetico, con il suo sorriso rassicurante, il suo italiano sgangherato, mi ha conquistato alla causa.
Poi paura di che? Di chi? Appena tre giorni sono tra-scorsi dall’alba dell’eccidio di Filottrano. Conoscevo di persona alcune vittime; di altre ho appreso i nomi il giorno dopo mentre percorrevo le strade verso Villastrada. In pericolo sempre. Anche l’undicesimo conosco, il quale, per sua fortuna, è scampato dall’esecuzione. Quando potrò, Dio volendo, lo andrò a trovare per solidarietà ed anche per... scambiare sensazioni, per esempio, per saperne di più quando si è costretti a camminare sopra quel genere di precipizio”.
Sopra il canterano in bella mostra la sveglia segna il toc-co dell’una e trenta. E che ci vuole a giungere alle tre? Mi sono girato a pancia in sotto, con la speranza di dormire.
Niente da fare. E’ comparsa di nuovo la sua figura, quel-la di Leon, nonostante che poche ore prima evaporasse senza neanche un cenno di saluto.
Si era presentato come un fantasma sul far della sera; scomparve come un fulmine dopo aver sussurrato: Intesi?
Sotto quella sua aria di mitezza si nascondeva, secondo l’opinione del suo aiutante in campo, di cui non ricordo il nome, che lo seguiva come un’ombra, il Leon eroe della battaglia di Montecassino, la sua determinazione e spregiudicatezza nell’azione.
Le sue caratteristiche di soldato coraggioso lo hanno già consegnato alla storia, sempre secondo quanto si sussurrava. Nella resa di Montecassino è stato, insieme al suo reparto, quello che ha contato meno sacrifici di vi-te umane, affacciandosi alla testa di un plotone del 12° reggimento lancieri, dopo aver superato il ciglio della strada, a presentarsi sulla spianata davanti all’Abbazia devastata.
Non ho dormito più e mi sono presentato davanti alla sua tenda fiocamente illuminata nell’accampamento”.

La sorpresa richiedeva silenzio assoluto senza appoggio di artiglierie e mezzi corrazzati, come avviene in casi del genere.
Ricordo ancora quando, da bambino, insieme alla mamma Ionne si andava a messa d’inverno prima dell’alba al buio in cui i rumori degli zoccoli sulla strada diventava-no distinti e chiari; di ognuno ero in grado di conoscere a chi appartenessero i passi. Qui no. Già ché si percorreva un sentiero di campagna, ma soprattutto perché, prima dell’inizio dell’azione Lui aveva ispezionato e fatto ispezionare che i suoi soldati calzassero stivaletti leggeri risuolati di gomma spessa.
Leon ed io eravamo alla testa della colonna. Non appena raggiunto l’avamposto di Rotella, collina gibbosa, segnalata sulla carta come quota 218, l’azione fu immediata, il nemico colto di sorpresa, vano ogni tentativo di sua resistenza, soffocata sul nascere, la conquista avvenne senza colpo ferire, prima del sorgere del sole.
Leon, prevedendo una possibile reazione del nemico, che si manifestò alle prime luci dell’alba, diede l’ordine di radunare i prigionieri ed i feriti leggeri, che insieme a me, dovevano ripiegare nelle retrovie, accompagnati da una nutrita scorta. La colonna era destinata a rientrare alla base. Passatempo.
Fatti pochi metri un sibilo squarciò l’aria ed una granata esplose di schianto sollevando terriccio e schegge. Con il diradarsi del fumo, alcuni uomini si sollevarono, altri no. Fra questi ultimi c’ero anch’io. Mi sembrava di essere morto causa buio completo intorno a me.
Mi sono svegliato in un letto di ospedale delle retrovie del Fronte. A Chieti per la precisione.
- Stefani, visita per te!
Poi la porta si richiuse lentamente dietro la voce indefinita. Ogni giorno cambiavano soggetti. Di tanto in tanto appariva un tale vestito da militare, piccolo, con la faccia nascosta dietro occhiali e baffi mostruosi. Senza degnarsi di parlare, se n’andava dopo un po’, scollando la testa.
Mi venne un rigurgito improvviso di pianto prima di di-re:
- E chi può essere?
Ho fatto in tempo ad ingoiare le lacrime dopo essermi ri-cordato che quella mattina uno sparuto gruppo fra me-dici ed inservienti mi hanno notificato le ragioni della menomazione.
Al momento mi ha colpito un senso d’indifferenza siderale di quel gruppo di sanitari oppure ritenuti tali. Poi, quando la porta di fondo si chiuse alle loro spalle persi il senso della cognizione delle cose, ma prevalse lo spettro dell’aspetto pratico della vita con cui avrei dovuto fare i conti. In che condizioni avrei potuto vivere in quello sta-to? A fatica, facendo leva sugli avambracci, ho tentato di sedermi sopra il letto, il mio sforzo tuttavia è stato vano. Una o più molle della rete, parte destra del letto, hanno ceduto sotto il mio peso. Ho rischiato di cadere in terra; poi raggiunto un equilibrio precario, sono riuscito a se-dermi.
Si aprì di nuovo la porta. Chi poteva essere? Come mi dovrei comportare se fosse lui? Fare buon viso a cattiva sorte? Era proprio lui. Mi diede una gran pacca sulla spalla poi, senza scendere in discorsi di circostanza, mi ha snocciolato sopra il letto una serie di foto. Mi ha colpito quella in cui sette facce di giovanissimi sorridenti circondano il generale Moriggi dopo la fine della battaglia, coincisa con la cacciata dei tedeschi da Filottrano.
Non serve molto alla storia riportare il dialogo fra me e Leon. Una cosa però è certa: quanti hanno saputo della mia disavventura, fra gli addetti ai lavori, nessuno ha avuto il coraggio di farsi vivo. Nessuno.
Quando si è richiusa la porta della camerata in cui fui l’ultimo ricoverato, gli occhi mi andarono sul foglietto spiegazzato abbandonato lì, come se fosse stato perso.
Chiamai ad alta voce. Nessuno rispose.
Lo apersi. Conteneva la copia del salvacondotto per il mio futuro.
L’originale era già stato trasmesso al Comando del CLN di competenza. Così era indicato nel Ps del foglietto.
Se non ci fosse stato Leon, chi avrebbe conosciuto la vicenda di Stefani, umile staffetta partigiana? Ma soprattutto chi avrebbe risarcito i suoi danni fisici e morali, molto più gravi? Nessuno tanto per essere in linea con le visite in ospedale.